sabato 19 dicembre 2015

Metodo Classico o Charmat


Per ottenere un vino spumante è necessario eseguire una seconda fermentazione dello stesso vino. La scelta del contenitore in cui far sviluppare la rifermentazione è ciò che determina il metodo usato. Nel caso di seconda fermentazione in bottiglia, si sta praticando il metodo Classico, o Champenoise; nel caso in cui tutta la massa del vino subisca la seconda fermentazione in un unico contenitore di acciaio, si tratta del metodo Martinotti o Charmat, dall’inventore italiano Ingegner Martinotti e dal francese che lo ha reso famoso nel mondo, Monsieur Charmat.

 
Quale strada scegliere non è cosa da poco, il metodo classico prevede tempi molto lunghi, anche molti anni; il metodo Charmat consente di arrivare allo spumante finito in pochi mesi. Nel metodo classico inoltre, ogni bottiglia fa storia a se, nel metodo Charmat tutto il vino rifermenta insieme e ogni bottiglia sarà identica alle altre, almeno all’atto dell’imbottigliamento.

Lo spumante metodo classico non nasce nella Champagne francese, certo Dom Perignon, l’Abate benedettino che ne rappresenta l’emblema, oltre che il padre nobile, ebbe un’influenza senza pari al perfezionamento della produzione di vini spumante metodo classico della Champagne, oggi per tutti semplicemente gli Champagne,  però non ne fu lui l’inventore, dato che i vini con le bollicine erano già conosciuti ai tempi dei romani. L’Abate osservò, studio e probabilmente capì il principio della rifermentazione che avveniva in bottiglia, quella che sta alla base del metodo classico o, se preferite, del metodo champenoise, dalla regione della Champagne di Dom Perignon.

Lunghe rifermentazioni in bottiglia dunque, oppure brevi rifermentazioni in autoclavi isobariche. Certamente non finiscono qui le differenze, anche alla degustazione infatti i vini prodotti con metodi diversi risultano diversi. Generalmente i metodo classico sono più strutturati ed evoluti, sia al naso che al palato, mentre gli Charmat sono freschi e profumati, meno strutturati ma di beva molto più immediata.

Attenzione dunque a non considerare i metodi Charmat, ad esempio il famoso Prosecco, come degli spumante di serie B, sarebbe un grave errore! Sono semplicemente vini diversi, ciascuno con le sue caratteristiche e con i suoi lodevoli pregi. Ad esempio per un aperitivo facile e spensierato, per l’abbinamento con piatti leggeri e poco strutturati, un metodo Charmat potrebbe risultare molto più funzionale di un potente metodo classico.

lunedì 7 dicembre 2015

Gattinara Galizja Docg 2009 Il Chiosso

L’astrolabio è un antico strumento astronomico portatile che serviva ai naviganti per misurare l'altezza degli astri sull'orizzonte, poi sostituito con il sestante. Fu inventato intorno al II a. c. e perfezionato in pieno Rinascimento, poi sostituito quando subentrarono anche orologi meccanici nel 1600. Nella sua forma più semplice l’astrolabio è costituito da un disco graduato di una quindicina di centimetri di diametro, sul quale è segnato un raggio in corrispondenza dello zero. Al centro del disco è imperniata un’asta girevole, detta “alidada”, che si può far ruotare. Puntando il raggio verso una stella e l’alidada verso un’altra stella, si può conoscere la distanza angolare fra le due stelle. Allo stesso modo si può misurare l’altezza degli astri sull’orizzonte. Attualmente vengono costruiti astrolabi molto precisi muniti di cannocchiale. Anche nel nuovo mondo internettiano del 2.0 esistono astrolabi interattivi che navigano all’interno della volta celeste individuando la posizione delle costellazioni in ogni giorno dell’anno e in ogni ora del giorno.
  
Tutte le etichette dei vini dell’azienda Il Chiosso in Piemonte, più precisamente a Gattinara raffigurano degli antichi astrolabi, molto colorati e permeati da grande fascino e carisma come del resto lo sono tutti i vini prodotti. 
L'azienda Il Chiosso produce, da importanti cru storici , vini di prestigiose denominazioni quali GattinaraGhemme e Fara
 
Il Chiosso ha natali recenti, nasce nel 2007 dall’unione però, di chi il vino lo conosce e lo fa da sempre: il produttore ed enologo di Ghemme Marco Arlunno con Carlo Cambieri, proprietario di vigneti in Gattinara. L’azienda possiede superfici vitate dislocate sull’intero territorio dell’Alto Piemonte, principalmente a Nebbiolo dove qui viene chiamato Spanna, territorio dove il fiume Sesia segna il confine naturale tra la provincia di Vercelli e quella di Novara, e divide fisicamente le colline del Gattinara Docg e del Ghemme Docg, mentre il Fara Doc è poco più a Sud anche se è considerata la Doc più a Nord del Piemonte. 

Sul versante orientale invece sono dislocate le Colline Novaresi con le differenti tipologie di vitigno. Una in particolare ha una storia un po’ curiosa, quella dell’Erbaluce che, in questa zona con la denominazione Doc di Colline Novaresi, non può essere menzionata; ovvero, non può apparire in etichetta il nome del vitigno con il quale è prodotto. La cosa più assurda è che l’Erbaluce è l’unico vitigno ammesso da disciplinare. Così l’azienda chiama il vitigno “l’impronunciabile” per non subire sanzioni punitive. Altre aziende, in questa zona, si sono adeguate a chiamare l’Erbaluce “l’innominata”, “senza nome” ecc. perché le leggi sono strane, tutti lo sanno!!


 
Il Gattinara Galizja Docg 2009 ha in etichetta sempre un astrolabio con all’interno un drago che l’azienda ha voluto come metafora del drago descritto da Omero: “animale fantastico con vista acuta, agilità di un’aquila e la forza di un leone”. Le uve del Galizja (Nebbiolo 100%) variano dai 15 ai 40 anni di età e appartengono al vigneto più importante inserito nella zona più storica e più vocata di questa denominazione. La vinificazione avviene in botte grande e matura sempre in botte grande nuova e vecchia da 1000 e 5500 litri.
 
Veste un bel colore granato radioso. I suoi profumi sono eterei e soffusi con una ventata balsamica in primo piano che lascia il posto a un cioccolatino alla menta, ciliegie macerate in alcol, rose appassite e bastoncino di liquirizia. Fatui refoli salmastri nel finale. In bocca ha freschezza determinata e giusta struttura scandita da eleganza, come per un vestito di alta sartoria. Tannini fitti e maturi puntellano il palato delicatamente. Lunga sapidità. Incantevole.



 
Il Chiosso
Viale Marconi, 45/47/47a
13045 Gattinara (VC)
Tel. 0163 826739
www.ilchiosso.it
info@ilchiosso.it

venerdì 30 ottobre 2015

Champagne Luois Roederer


Rosé Vintage 2007 permeato da grande charme. È prodotto con circa il 65% di Pinot Noir e il 35% di Chardonnay e una proporzione del 20% di vini vinificati in botti di legno. La cuvée viene fatta maturare sui lieviti per 4 anni in media ai quali si aggiunge un riposo di almeno 6 mesi dopo la sboccatura.
Tutto il Pinot Noir proviene da Cumières ed  è vinificato in rosa ottenuto da macerazione corta chiamato metodo Saignée o salasso (sottrazione della parte colorata da una vinificazione in rosso senza raspi). Questo metodo “ancestrale” dona allo Champagne un maggiore carico di colore risultando a volte più affascinante. Il Pinot Noir apporta la forza al gusto, la struttura e la consistenza al palato. Lo Chardonnay è il merletto dello Champagne, apporta invece finezza. Qui, infatti, ritroviamo una spasmodica ricerca di equilibrio tra sapidità e morbidezza e tra delicatezza e forza di durare nel tempo.
La flûte risplende della luce del sole al tramonto quando l’ora sincera è un po’ crudele, lasciando ricordi ancora lucidi e colorati. I pavé di bollicine brillano e rosseggiano così immersi in quel tramonto. Al naso aleggia una danza di sensazioni di Créme de cassis, piccoli frutti rossi e terra bagnata su pane integrale tostato. Al palato ci sono leggiadria e potenza; una carezza e uno schiaffo, stretti, uniti per sempre in un finale sterminato. Il secondo sorso non avviene subito, si è immersi ancora nel momento appena trascorso; si sta ancora assaporando l’istante incerto del tempo fluido di questo tramonto cercando di dargli una collocazione di assolutezza. Ecco l’evanescenza che avanza, la concretezza che diventa illusione e si tinge di mille sfumature di rosa quando poi lo si abbina a del Jamòn ibérico de Bellota. Se fosse una canzone sarebbe “La vie en Rose” cantata dalla voce più contemporanea di Elena Roger che ha interpretato in modo sublime l’icona Piaf. Alcuni versi di Baudelaire contribuiscono al piacere che regala questo rosé: “Ma che importa l’eternità della dannazione a chi ha trovato, in un secondo, l’infinito del piacere”. Santé.
Champagne Louis Roederer
21 Boulevard Lundy
51100 Reims, Francia
Tel.0033 (0)3 26404211
www.louis-roederer.com

venerdì 2 ottobre 2015

Raboso del Piave Azienda Cecchetto



Il Raboso del Piave è un vitigno autoctono del Veneto antichissimo con radici che affondano le proprie origini nei secoli fino ad arrivare al 1600 ed è un vitigno scorbutico, difficile da domare e poco accondiscendente con i gusti comuni. Una volta il Raboso era un vino duro, sgrassava il palato, “rabbioso”, appunto, com’era definito anticamente e da qui probabilmente l’etimologia del nome perché era un vino molto acido. Oggi grazie a un numero di vignaioli che credono nelle potenzialità del vitigno unito alla particolarità del territorio, si sta valorizzando il Raboso vestendolo di nuova luce, ingentilendolo, creando un prodotto più easy, sempre dinamico con la sua decisa freschezza ma fruttato e più morbido e molto longevo.
 
Giorgio Cecchetto ama la ricerca e la sperimentazione ma ha anche un profondo rispetto per la tradizione e così tra passato e futuro nella sua cantina oltre al Merlot, Carmenère, Cabernet Sauvignon, Manzoni Bianco, Pinot Grigio e Prosecco, si possono assaggiare diverse prove, versioni ed esperimenti riguardanti il Raboso del Piave. Questo vitigno con l’azienda Cecchetto è in continua evoluzione, declinato in diverse tipologie, dalla versione tradizionale Raboso Piave a quella più lavorata del Gelsaia, per poi passare a quella spumantizzata del Metodo Classico Rosè, fino ad arrivare alla versione passita. Questo “cavallo di razza” ha sempre avuto delle potenzialità e già alla fine degli anni novanta l’azienda ha iniziato ad appassirne una parte per cercare di smussarne gli spigoli. Ecco che nasce il Gelsaia, un vino intrigante da lungo invecchimento, gentile, morbido, succoso e profumatissimo nell’esprimere il suo respiro. Dal 2011 è una Docg con la nuova denominazione Piave Malanotte che prevede la percentuale delle uve appassite in fruttaio che possono variare da un minimo del 15% a un massimo del 30%.
 
Il Gelsaia con il 2011 è alla nona annata ed è prodotto solo nelle annate migliori in cui il Raboso ha raggiunto l'eccellenza espressiva. Nel calice si muove denso e impenetrabile, dal colore rubino vivido. Profumatissimo di leggerezze fruttate, intrigante nel proporti ciò che realmente è: bellezza e voluttà. Humus, confettura di visciole e gelsi, amarena sotto spirito, liquirizia e tabacco dolce. La dolcezza immediata è stemperata da una decisa acidità e da un tannino presente e rugoso ma mai invadente che accompagna un sorso felice in una lunga persistenza fruttata. Indimenticabile.
 

sabato 20 giugno 2015

In vino veritas


Il vino si può “udire”? 
Ha molto da dire e lo si può ascoltare attraverso le parole di chi viene abbondantemente innaffiato. Ne ha di parlantina, non lui, ma chi lo beve. 
Ma se il vino induce alla chiacchiera, generalmente non induce alla chiacchiera sul vino. 
Non si beve vino per passarne in rassegna i colori, i sapori, per enumerarne gli aromi, anche se i sommelier e le persone del settore lo fanno, ma è una licenza concessa solo a loro, perché loro degustano.
Il vino, in verità, è conversazione, in qualsiasi modo sia interpretato, è dialogo. Il vino è “il fiorire vegetativo della conversazione” diceva Kierkegaard e bastano uno o due bicchieri per sciogliere le briglie alla lingua.


 

In vino veritas: nel vino c’è la verità. Il vino slaccia, slega, scioglie e una parte di verità c’è in questo proverbio latino, anche se oggi, appare un po’ riduttivo. Infatti, oggi non si può più pensare che l’uomo sia perennemente inibito nell’espressione delle proprie emozioni che si allentano con un bicchiere di vino mezzo pieno o mezzo vuoto. Però, il vino fa uscire da noi stessi verità nascoste, ambigue, a volte terribili. Fa dire sempre di più di ciò che si vuol far sapere. È per questo motivo che esistono gli astemi? L’astemio è colui che non beve vino o altro alcol, mai, per nulla al mondo, per nessun motivo, senza compromessi. Ecco cosa ne pensava Baudelaire: “Non è ragionevole pensare che le persone che non bevono mai vino, per istinto o per calcolo, sono degli imbecilli o degli ipocriti?



Chi beve solo acqua ha un segreto da nascondere”. Gli astemi sono coloro che si astengono da bere vino per proteggersi, è certo, ma così facendo non capiscono che rinunciano a loro stessi, segregano la propria anima, pentendosene alla fine. E noi bevitori o degustatori di vecchio stampo, quando incontriamo un astemio siamo sempre pronti a chiedergli il perché o il significato di tanta mortificazione; a che scopo chiudersi a tal punto? Gli astemi non si concedono, non si donano. Rinunciano a rendere libera la propria inibizione così cucita, stropicciata. Bere per disinibirsi, sentirsi liberi di dire e provare ma l’astemio si sente libero di suo e non vuole provare nulla e forse ha ragione lui. Bere non rende necessariamente più felici ma si sa dove si va: si va altrove ma attenzione, l’alcolismo è un vizio, un’intossicazione, una peste contemporanea.

Degustare e non bere è più giusto, più esatto ed è un valore aggiunto alla nostra cultura. Degustare, dunque, perché se si è in grado di godere di una buona bottiglia di vino, si gestirà meglio il controllo degli impulsi. L’abuso di alcol rappresenta l’esatto contrario. Si ha difatti difficoltà a controllare i propri impulsi riducendo l’auto-controllo. Tutto ciò è negativo sia per il corpo sia per la mente. Per il corpo è negativo perché alcune ore dopo si soffre di mal di testa, ottundimento, mal di stomaco e, a lungo andare, si hanno problemi al fegato e altro. Per la mente, invece, è negativo per il senso di colpa che si può provare, per aver detto o fatto qualcosa che non si sarebbe mai detto o fatto nemmeno sotto tortura. Essere disinibiti, spesso, può portare a pentimento. Il vino non lo fa, anzi, può aiutare a rilassare, a decontrarre i muscoli del collo, ad alleggerire gli animi in circostanze un po’ “tirate”, ad essere un filo più audaci e a relazionarsi in situazioni social-mondane. Oppure semplicemente può aiutare ad alleggerire le tensioni di una giornata intensa di lavoro. Bisogna gratificarsi ogni tanto, anche a casa, da soli, con una buona bottiglia di vino senza che si raggiunga l’annullamento della coscienza. Bisogna iniziare a bere vino come filosofia di vita, come piacere di vita tanto da farne un’altra forma di gioia.

sabato 13 giugno 2015

Oscar del Vino 2015

Sono commosso, emozionato, per questo riconoscimento, perché il mio Taurasi si trova in mezzo a un Barolo e un Amarone, due grandi vini italiani. L’Oscar lo voglio dedicare a tutto il territorio e alla città di Taurasi, sarà uno stimolo per tutti”. Queste le parole di Antonio Caggiano, durante le premiazioni dell’Oscar del Vino 2015 Premio Internazionale del Vino, lo scorso 6 giugno.
L’Oscar del Vino è una festa di donne e uomini, non solo del vino; un evento scandito da sentimenti, emozioni, attese e commozione, come quella di Antonio Caggiano e degli altri premiati.
L’Oscar del Vino non è quindi un punto di arrivo ma un blocco di partenza: un momento di gioia condivisa, un’attestazione di stima e di valore che parte dal vino, dalla Grappa o dall’olio per arrivare all’anima dei protagonisti, i quali, a loro volta, la estendono al proprio gruppo di lavoro, alla propria cantina o frantoio che sia, sin dentro il territorio stesso in cui operano.
 
 
 
“Il vino prepara i cuori e li rende più pronti alla passione”. Così declamava il poeta latino Ovidio, verso che introduce le premiazioni e proprio la passione “è la parola giusta, perché la serata sarà piena di emozioni e di premiazioni”. Queste ultime le parole che hanno aperto la diciassettesima edizione dell’Oscar del Vino, pronunciate dalla conduttrice Andrea Delogu, coadiuvata durante tutta la serata da una giuria semiseria, composta da Fede e Tinto di Decanter e lo chef Cesare Marretti, che ha interagito con i nominati, aperto le buste degli Oscar e annunciato i vincitori alla platea, oltre, ovviamente, al “padrone di casa” Franco Maria Ricci, ideatore dell’Oscar del Vino, che ha regalato, come sempre, contenuti e spettacolo all’evento.

Tutto comincia con il Miglior Vino Bianco, categoria in cui sarà premiato il vino di Tasca d’Almerita e lo stesso conte Lucio Tasca, una volta sul palco, con l’Oscar in mano, terrà a precisare di non essere conte ma contadino e preferire di essere tale. Miracolo della terra, penserete, o del vino; niente di tutto questo perché l’Oscar mette a nudo le personalità di questo mondo, sebbene la sera del 6 giugno fossero tutti in smoking o in abito da sera, rendendole semplicemente uomini o donne. La testimonianza di Lucio Tasca è anticipata da quelle di Lorenzo Pellegrini di Cataldi Madonna, nomination nella categoria con il Pecorino, il quale dal racconto della sua azienda e della vera o presunta moda del vino Pecorino, passa quasi sorprendentemente a quello del territorio e lì ci si accorge che molti produttori sono più innamorati della terra in cui operano rispetto alle loro stesse aziende. Un altro miracolo del vino, forse, non ne siamo certi, ma ci piace pensarlo. Dopo aforismi, battute, battibecchi e gag della giuria semiseria, protagonista come se fosse una sorta di voce fuori campo della serata, arrivano le nomination per il miglior vino rosato e anche qui,  Nino Bevilacqua, ingegnere colpito dalla freccia di Bacco, non Cupido, racconta con aria quasi sognante la bellezza e gli sforzi dell’allevamento della vite in quel mondo che si chiama Etna: isola nell’isola e primordiale fonte di energia e vita, come evidente nella complessità e nella ricchezza dei vini prodotti, inclusi gli spumanti rosati.


“Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro e un buon amico”. Aforisma di Molière che introduce il passaggio dai vini all’enologo, così il Premio Internazionale del vino 2015 va a una vera istituzione del vino: Donato Lanati. Conosciuto come l’enologo scienziato, per un approccio analitico alla produzione, fatto di ricerche e studi condotti da Enosis, centro all’avanguardia da lui stesso creato in quel di Fubine (Alessandria), Lanati sorride sul palco, ma è emozionato e quando gli viene domandato cosa fa esattamente l’enologo, risponde in maniera quasi estatica che, in fondo, l’enologo asseconda la natura, palesando un rapporto intimo e inimitabile, ma ogni anno sempre diverso, tra vite e uomo. Durante le nomination per la migliore azienda agricola poi, Jacopo Biondi Santi sembra il più emozionato di tutti. Jacopo Biondi Santi ha l’aria di un ragazzo impaziente e lo sarà ancora di più in occasione del conferimento del Premio Speciale della Giuria alla sua azienda circa un’ora più tardi, a conclusione delle premiazioni, dove ringrazierà tutti, visibilmente commosso e ancora con lo stesso sguardo da ragazzo di campagna. Tornando alla categoria dell’Oscar alla Migliore Azienda, da sottolineare le parole d’amore per il Sulcis di Antonello Pilloni, Presidente della premiata cantina Santadi, esempio di efficiente e indispensabile cooperazione in una terra tanto affascinante quanto difficile per quel che concerne il mondo del lavoro. Tra un aforisma e l’altro si arriva al Premio Speciale della Giuria per Albano Carrisi, cantante vignaiolo, o meglio, come lui ama dire: “ci sono due Albano, uno è cantante, l’altro è contadino vignaiolo, stasera qui c’è solo il secondo, il più importante. L’Albano cantante - continua - ha permesso all’Albano vignaiolo di esistere ed esprimersi”. Il cantante di Cellino San Marco è un portavoce importante e noto del vino italiano, un nostro amico e soprattutto una voce cristallina che, per citare Luigi Veronelli, contribuisce a fare del vino “il canto della terra verso il cielo”. La categoria per il miglior vino spumante premia ancora un vino e una cantina del Mezzogiorno, aspetto che viene sottolineato con orgoglio da Antonio Capaldo di Feudi di San Gregorio. È poi il momento dell’informazione, ovvero l’Oscar per la Migliore Comunicazione Televisiva del Vino. A raccogliere il premio, anche qui visibilmente emozionati e commossi, il Direttore e il Vicedirettore del Tg2, rispettivamente Marcello Masi e Rocco Tolfa, quest’ultimo nostro valente allievo del BIBENDA Executive Wine Master. Arriviamo quindi al Miglior Vino Rosso, dove gli applausi, una volta ricevuto il premio, sono tutti per Antonio Caggiano e le sue parole, con cui abbiamo aperto questo resoconto. Inaspettato, alla luce dello stupore di Franco Fierli, enologo di Tenute del Cerro il premio nella categoria Miglior Vino di Grande Qualità Prezzo con il Vino Nobile di Montepulciano 2011.
 
“Su questa bottiglia ci puoi scrivere quello che ti pare dedicarla a chi vuoi e poi se cambi idea cancellare tutto”. È Alessandro Ceci a dire queste parole, quello dei due baci, che racconta il suo Bolle di Lambrusco To You (bottiglia interamente di grafite nera con gessetto incorporato), premiato nella categoria Miglior Etichetta con Miglior Vino. Giovanni Manetti, patron di Fontodi, è invece il protagonista dell’Oscar per il miglior Vino Dolce, con il suo Vinsanto e a tal proposito a tenuto a raccontare come questo vino rappresenti l’anima intima del Chianti Classico e simbolo dell’ospitalità della gente chiantigiana: “anche chi non fa vino spesso ha comunque una piccola produzione personale di Vinsanto”, ha dichiarato. Dal vino alla Grappa, con uno dei signori del nostro distillato bandiera, quel Roberto Castagner che ha completamente riscritto le regole di produzione di questo spirito e ha orgogliosamente dichiarato sul palco, con l’Oscar per la Migliore Grappa ben stretto a sé, di essersi elevato nella distillazione, rispetto alla sua prima occupazione di enologo, a riprova di come la Grappa non sia un prodotto di seconda scelta rispetto ai più blasonati distillati stranieri. Commosse e profonde poi le parole di Marina Gioacchini, premiata per il Miglior Olio del Raccolto 2014, che ha subito ringraziato la Fondazione Italiana Sommelier per l’attenzione riservata al mondo dell’olivicoltura di qualità e ha dedicato l’Oscar a suo padre, scomparso proprio durante l’ultimo raccolto.
 
Dall’olio di oliva alla ristorazione, alle enoteche e alla promozione del vino. Antonio Del Curatolo, patron del ristorante Le Lampare al Fortino di Trani e Oscar Miglior Ristorante con Migliore Carta dei Vini, ha rimarcato l’importanza dei vini nell’esaltare la cucina: un fil rouge unico che è la quintessenza del piacere a tavola. Luca Castelletti, dell’Enoteca Al Ponte di Bergamo e vincitore del Premio per la Migliore Enoteca, ha invece ricordato come la qualità dell’offerta e la professionalità paghino sempre, mentre Cristiana Lauro, che si è aggiudicata il Premio Internazionale del Vino Promoter Brand Manager, ha ribadito l’importanza di creare relazioni e contatti per far conoscere prodotti, aziende e territori. Web in fundo, sarebbe il caso di dire, parafando la locuzione latina, con il Premio Speciale della Giuria a giallozafferano.it, il portale di ricette più cliccato in Italia con oltre 18 milioni di contatti al mese: un vero e proprio must, sulla rete, della comunicazione gastronomica. Contento ed emozionato, ha ritirato il premio Andrea Santagata, amministratore delegato di Banzai Media, società proprietaria del sito. In realtà l’ultima premiazione è toccata alla cantina Biondi Santi Tenuta Greppo, un altro Premio Speciale della Giuria di cui abbiamo scritto in precedenza. Tutto poi si è letteralmente sciolto in una favola, quella del vino, scritta e interpretata dall’attrice Elisabetta Salvatori. Un racconto che, come in ogni favola che si rispetti, ha letteralmente fermato il tempo, regalando un’emozione in gesti e parole narrata in un’altra favola, quella degli Oscar del vino, nella notte delle stelle. 
 

martedì 26 maggio 2015

Abbinamento cibo e vino

La figura professionale del sommelier è indispensabile per interpretare il cliente e cercare di coniugarlo al piatto e al vino.
Ma cibo e vino... è davvero un abbinamento possibile?
All’Expo si è tenuto un interessante convegno moderato da Enzo Vizzari in occasione della inaugurazione del Padiglione Vino curato da Riccardo Cotarella.
Il Convengo ha cercato di focalizzare questa dicotomia crescente tra piatto e bicchiere che nella cultura mediterranea si sono sempre cercati per almeno tremila anni.
La conclusione, solo apparentemente paradossale, è nelle parole di Davide Oldani: mai bere mentre si mangia, ma tra un piatto e l’altro.
E allora gli abbinamenti, i consigli delle retroetichette delle bottiglie? i corsi dei sommelier?
Nella scelta del vino a tavola in primo luogo bisognerebbe assecondare il desiderio basato su parametri essenziali e istintivi: voglia di freschezza, bisogno di un buon corpo o anche di alcol, tentazione sgrassante delle bollicine.
Ergo se ho un piatto importante penso poco al vino; se ho una bella bottiglia penso poco al cibo.
Il piacere del bicchiere prescinde da quello che si mangia e viceversa.
Alcuni piatti hanno davvero bisogno di un bicchiere di vino? forse soltanto mentre li aspettiamo!


lunedì 25 maggio 2015

Il lato tenero del Sagrantino

 
L’ultimo decennio è stato caratterizzato dalla criminalizzazione dell’alcool in generale, un’ondata di disinformazione e superficialità da cui anche il vino, erroneamente accomunato ai superalcolici, si è trovato ad essere travolto, arrivando a pagare, spesso al posto di altri prodotti realmente dannosi, il prezzo di stili di vita e consumi poco attenti ed informati. Contestualmente, si è assistito però ad una crescente attenzione verso la conoscenza del patrimonio fenolico dell’uva e dei vini, in relazione alle potenziali attività salutistiche. In particolare dei flavonoidi, dal potere antiossidante, e degli stilbeni, che avrebbero addirittura il potere di bloccare e ritardare la cancerogenesi. Fanno parte rispettivamente del primo e del secondo gruppo, il resveratrolo e la quercetina, molecole bioattive dotate di potenzialità fitoterapiche, tra cui attività antiossidanti e anti-infiammatorie, che risulterebbero, tra l’altro, da 10 a 20 volte più potenti della vitamina E nel proteggere l’ossidazione delle lipoproteine a bassa densità LDL, riducendo quindi la formazione di colesterolo cattivo e il rischio cardiovascolare. 
 
Esistono uve in grado di condensare ancora di più questo potere salutistico e una di queste è il Sagrantino, vitigno autoctono dell’Umbria, dove cresce principalmente nei territori che circondano il comune di Montefalco, in provincia di Perugia, coltivato su 670 ettari gestiti da circa 350 produttori. Il suo nome sarebbe riconducibile al latino sacer, sacro, poiché la pianta era coltivata dai monaci e il suo vino era utilizzato, oltre che per servire messa, anche per celebrare le varie ricorrenze religiose. La sua uva è una delle varietà più tanniche al mondo (i polifenoli sono pari a 4.174 mg per litro, quasi il doppio di altre varietà rosse) e una delle più ricche di antociani (circa 2040 mg/l, quasi il triplo del Sangiovese), classe di pigmenti idrosolubili appartenente alla famiglia dei flavonoidi, che conferisce al vino la sua intensità cromatica.
 
L’uva di Sagrantino è quindi un frutto sano e, cosa meno nota, estremamente dolce, visto che arriva ad avere un grado zuccherino molto elevato, pari a circa 260 grammi per kg, superando di gran lunga quello di tutte le altre uve. Eppure, se pensiamo al vino che se ne trae, quello che balza subito alla mente è la sua astringente tannicità, normalmente presa d’esempio anche nei nostri Corsi di Sommelier per far capire il concetto di “vino tannico”. Cos’è allora che avrebbe impedito a quest’uva di esprimere nel vino la propria naturale morbidezza? Semplice: il disciplinare. La Docg Sagrantino di Montefalco, attiva dal 1992, ha imposto infatti di limitare il residuo zuccherino a 3 g/l (si pensi che l’Aglianico del Vulture ammette fino a 10 g/l e il Primitivo di Manduria addirittura 18 g/l), costringendo i produttori a trasformare in alcol tutto lo zucchero presente nelle uve. Questo limite, che fa sì che ne nascano vini necessariamente robusti e molto caldi, ha indotto un piccolo gruppo di aziende del territorio a sperimentare una strada alternativa, ispirata alla vinificazione tradizionale del Sagrantino e vicina al carattere morbido e accogliente della regione umbra. Si tratta del progetto Vino e Salute, capitanato dalla cantina Signae e al quale aderiscono anche altre aziende della zona di Bastardo, comune del perugino, tutte dotate di tecnologie all’avanguardia in cantina, tra cui la criomacerazione, e che si impegnano nell’evitare l’uso di solfiti e della chimica di sintesi. Un progetto che mira ad andare oltre il Disciplinare e che permette al Sagrantino di esprimere anche il suo lato “tenero”: quella morbidezza data dalle uve raccolte a maturazione avanzata, che si fa protagonista di vini Igt come Rossobastardo (blend di Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon e Sagrantino raccolto surmaturo) e Benozzo (Sagrantino in purezza) della cantina Signae, ma prodotti secondo i medesimi crismi e uvaggi (con nome diverso), anche dalle altre cantine coinvolte nell’iniziativa.
 
Ma questa “riabilitazione” dell’uva Sagrantino non finisce qui e valica i confini del vino: una delle aziende, Campo della Maestà, ha infatti anche lanciato la produzione di confettura di Uva Sagrantino, ottenuta da uve di Sagrantino selezionate a mano e immediatamente lavorate, per dare risalto a fragranza, salubrità e naturale dolcezza del frutto. L’analisi cromatografica liquida ad alta prestazione (HPLC) del campione ha rilevato picchi relativi ai composti anticianosidici e polifenolici tali da aver indotto all’introduzione sperimentale della confettura anche in alcune mense ospedaliere, come alimento terapeutico, oltre al prossimo inserimento tra i prodotti salutari sugli scaffali delle farmacie. Un prodotto sano (contiene 90 g di frutta per 100g di prodotto), oltre che buono, che per la sua dolcezza non eccessiva, percorsa da piacevole acidità, lo vede compagno ideale di pecorini tipici umbri ben stagionati, magari abbinati ad un calice di Sagrantino di Montefalco Passito. Un esemplare della Docg davvero interessante, non a caso scelto per essere servito durante i viaggi papali a bordo della Classe Magnifica Alitalia, è il Seméle, anch’esso della cantina Signae. Rubino nel calice con unghia sfumata verso il granato, evidenzia al naso intensi profumi di prugna secca e in confettura, gelatina di frutti di bosco, datteri scuri, cannella e spezie dolci, avvolte da una costante sottofondo di erbe aromatiche e toni minerali. Ancora più ricco e sorprendente l’assaggio, che da un incipit dolce vira verso dinamici ritorni minerali e salini, disciplinati in chiusura da un tannino austero ma perfettamente integrato. Quello stesso tannino che finalmente trova la sua naturale ragion d’essere, se messo accanto al lato tenero del Sagrantino.
 
Montefalco Sagrantino Passito Semèle 2010
Tipologia: Rosso Dolce Docg - Uve: Sagrantino 100% - Gr. 14% - € 20 (0,375) - Bottiglie: 10.000 - Matura 15 mesi in acciaio e 18 in tonneau. Affinamento in vetro di 24 mesi.
 
Cantina Signae Cesarini Sartori
Loc. Purgatorio
06035 Torri di Barattano, Gualdo Cattaneo (PG)
Tel. 0742 99590
www.rossobastardo.it
info@rossobastardo.it

lunedì 18 maggio 2015

Itineris. Le vie della birra

Sembra proprio di rivivere questa storia millenaria curiosando nel Birrificio di Claudio Conti ospitato nei locali della “ Castellania” (una delle prime fabbriche di ceramica di Civita Castellana poi chiusa negli anni ’80). E’ il viaggio l’idea che ricorre frequentemente nei pensieri e nelle parole di questo simpatico ed appassionato produttore nativo di Nepi, in provincia di Viterbo: ricordo dei numerosi spostamenti diversi anni fa tra Piemonte e Lombardia alla scoperta dei primi birrifici artigianali. Poi la conoscenza e l’amicizia di personaggi importanti del settore come Lelio Bottero e Maurizio Cancelli. Consigli e suggerimenti preziosi che spingono Claudio a tornare a casa con la convinzione di intraprendere una nuova avventura in cui legare le esperienze acquisite al suo territorio di origine. Alla fine del 2010 nasce così il birrificio con le attrezzature più moderne ed un impianto ad alta fermentazione. Al momento vengono prodotti undici tipi di birra per un totale di circa 700 ettolitri annui con malti in prevalenza provenienti da Belgio e Germania. Civita Castellana, crocevia di strade dalla lunga storia, e il suo circondario, con il caratteristico paesaggio, l’arte e le sue spezie, sono al centro del progetto di questo birrificio chiamato appunto Itineris. Un progetto ed un racconto esemplarmente riassunti nei nomi e nella grafica delle etichette.
Nascono così la Cimina, tipica Weizen dalla schiuma bianca e persistente,  fresca e lievemente agrumata al gusto, per preparazioni delicate di pesce, l’Amerina, dai fini sentori di miele e arancia amara, leggera ed elegante, molto equilibrata, la Francigena, in tipico stile trappista, abbastanza morbida e di discreta persistenza, perfetta con la pasticceria secca . Il tracciato di queste vie di comunicazione dalla storia millenaria, riportato schematicamente sulle etichette, rimanda a tempi lontani i cui protagonisti erano viandanti e pellegrini in lento cammino tra rocche medioevali e monasteri. La centralità del territorio appare evidente anche nei nomi e nelle etichette della Infinity e della Falisca dove si richiamano, rispettivamente, il basolato cosmatesco della Cattedrale di Civita Castellana (con il simbolismo legato ai suoi splendidi cerchi concentrici di porfido) e l’Arco di Giove di Falerii Novi. La prima è un’interessante stout nera, speziata con cardamomo, anice stellato, chiodi di garofano e cannella , dalla schiuma fine e persistente e dal sapore orientato sulle note tostate da provare, come suggerisce Claudio, in abbinamento con i gamberoni alla griglia. Molto robusta ed aromatica la Falisca, lavorata solo con luppoli americani e speziata con zenzero, pepe rosa e finocchiella selvatica, ideale con salumi e formaggi. La Flaminia si caratterizza invece per i richiami al caffè e al cacao ma anche per il gusto maltato che tende leggermente all’amaro.
Protagoniste nella LaZIAale sono le spezie e le erbe del viterbese: una birra leggermente ambrata con un breve finale di miele amaro che nasce da un progetto condiviso con altri birrifici laziali. Tra le ultime nate la Treja dal nome del fiume che nel vicino Parco Regionale scorre tra mulini e cascate in un paesaggio particolarmente suggestivo. Lavorata con semi di canapa decorticata, mirto e pepe rosa, da luppoli inglesi, all’olfatto è decisamente speziata e di buona persistenza per un abbinamento ideale con le carni bianche. Nelle adiacenze dello stabilimento un piccolo pub con veranda esterna consente di degustare e apprezzare i prodotti di questa piccola ma interessante realtà. 

Il Timorasso FAUSTO 2012

 
 
Fausto Coppi, detentore del record di cinque vittorie del Giro d’Italia e due del Tour de France, è oramai entrato a far parte della leggenda ciclistica mondiale. Nacque a Castellania nel 1919, in provincia di Alessandria ed è proprio qui che Francesco Bellocchio dal 2003, nipote del Campionissimo, conduce l’azienda Vigne Marina Coppi dove da qualche anno affida alla doc di territorio, Colli Tortonesi, un Timorasso davvero interessante e meritevole di notorietà. Si chiama Fausto, in onore di suo nonno Fausto Coppi. Il nome dell’azienda Vigne Marina Coppi, invece, è dedicato alla figlia dell’Airone. La scelta dei vitigni storici piemontesi coltivati da Bellocchio, come Nebbiolo, Barbera, Croatina, Freisa, Favorita e Timorasso, esprime uno stretto legame con la tradizione. Inoltre la produzione si può definire artigianale: pochi ettari e tutto a conduzione familiare. La coltivazione, poi, vira verso il biologico censurando diserbanti e antibotritici.
Fausto e il Timorasso hanno in comune tra loro il fatto di essere dei veri e propri autoctoni del territorio. Il Timorasso è, appunto, un vitigno autoctono a bacca bianca della provincia di Alessandria, coltivato essenzialmente nelle Valli Curone, Grue, Ossona e in Val Borbera. Nei Colli Tortonesi è presente almeno dal Medioevo e viene citato nella prima enciclopedia agraria redatta dal bolognese Pier De Crescenzi nel XIV secolo. Vitigno difficile da gestire, vede una ridotta vigoria vegetativa e una maturazione piuttosto precoce, quindi è burbero e poco produttivo. Ha vissuto decenni di abbandono in nome di varietà più redditizie e riportato in auge, negli anni Ottanta, da vignaioli di grande talento, forti e coraggiosi come Walter Massa. Il Timorasso sa regalare sorprendenti potenzialità aromatiche e ha grandissime doti d’invecchiamento.

Il Timorasso Fausto 2012 è cresciuto e vissuto in un’ottima annata dal clima equilibrato ideale per mantenere integre le componenti aromatiche con mineralità e sapidità più piacevoli ed eleganti. Potente e gessoso ma anche elegante è il vino più rappresentativo al momento dell’azienda che lo ha visto salire per la prima volta quest’anno sul podio dei cinque grappoli. Paglierino carico con lampi dorati. Ha un naso seduttivo con profumi di acacia, tiglio, pesca bianca, poi resina e pietrisco. Al palato risulta tonico, vigoroso ma confonde la levità. Freschezza e innervature saline sono domate dal calore dell’alcol che insieme creano un’altalena di cuspidi arrotondate.


lunedì 27 aprile 2015

Bollicine. Spumante e Champagne

 
 
 
 
 
 
Franciacorta Extra Brut EBB 2007 Il Mosnel.
 
EBB sta per Emanuela Barzanò Barboglio, madre di Lucia e Giulio, attuali proprietari dell'azienda. Uno Chardonnay in purezza che vede solo il mosto fiore (il succo separato per primo) destinato al Franciacorta EBB. La fermentazione primaria avviene in barrique dove sosta 5 mesi fino alla primavera successiva quando c'è l'imbottigliamento, dopodiché parte la seconda con la rifermentazione in bottiglia per 36 mesi sui lieviti prima di diventare Extra Brut. Un Franciacorta austero, ammiccante infinito nel quale si possono cercare mondi sconosciuti e sogni fantastici ma che si lascia bere con facilità, come vuoi tu. Si apre con personalità, si dona con gentilezza e tu stai lì, sorso dopo sorso, nella rilassatezza totale dei brividi di piacere che lui sa regalare. Perlage fine e continuo in un bel color oro. Miele, biscotti e marzapane, poi agrumi e nocciole. L’assaggio ha volume e profondità reso vibrante da una sapidità sostenuta e da una freschezza giusta e mai invadente.
 
 
 
 
 
 
Champagne Brut Nature Dosage Zero Drappier.

 Le cantine della Maison sono state costruite nel XII secolo mentre l’albero genealogico risale al XVII secolo. Champagne puro, senza trucchi, senza l’aggiunta della liqueur d’expédition e con solo 2 g/l di zucchero di residuo naturale. Non è uno Champagne cui le bollicine assomigliano a pensieri vaporosi o alla leggerezza di risate. Lui ha struttura, lui è carnalità, lussuria; ha carattere perché Pinot Noir al 100%. Non è uno Champagne fugace, di pronta beva che scioglie gli animi e infervora la lingua a ricamare all’infinito le nefandezze del mondo. Ci si sofferma piuttosto, dopo la prima deglutizione, a capirne la morbidezza e la spinta acida che riescono a rendere elastico il suo ingresso nel palato. Ha un incarnato ramato e piacevoli toni minerali, speziati e di cassis. I Dosage Zero sono vini un po’ più striduli, secchi meno propensi a scendere a compromessi, caratteriali, vanno presi per il verso giusto e al momento giusto. Ci vuole tempo per capirli, ovvio che una volta capiti, non si lasciano andar via facilmente.
 
 
 
 
 

lunedì 20 aprile 2015

Il Cannonau, il notaio e il “finto” Grenache

 

 
 
 
 
 
 
 
 
Correva l’anno 1549 e a Cagliari il notaio Bernardino Coni ratificava un atto di successione in cui, tra i beni del de cuius, veniva annoverata una vigna a Cannonau, con relativa produzione di vino. Apparentemente nulla di strano, tanti gli atti di questo genere in cui si trasferivano vigneti, cantine, botti e vino. Ciononostante questo semplice documento rappresenta oggi la prova, storico-archivistica, di uno dei più diffusi errori dell’ampelografia nazionale: l’identità tra i vitigni Cannonau e Grenache. Cerchiamo allora di investigare e capire cosa è realmente accaduto e quindi la genesi del malinteso. Il nostro viaggio comincia così in Spagna, patria del Garnacha o del Grenache, per dirla alla francese, perché è proprio qui che nasce il malinteso. Il Garnacha deriverebbe infatti dal Cañocazo e non dal Canonazo, che aveva fatto pensare al legame con Cannonau già alla fine dell’Ottocento, come evidente nel lavoro del grande agronomo sardo Sante Cettolini, entrambi comunque vitigni originariamente a bacca bianca e il Cañocazo ancora presente, benché in minime quantità, in Andalusia. A questo punto il mistero si infittisce ancora: perché confondere un’uva bianca con una rossa? In realtà anche le primissime uve di Garnacha, nel Seicento, erano perlopiù bianche e lo stesso conte Giuseppe di Rovasenda, uno dei padri dell’ampelografia nazionale, nel trattare il Canonazo di Xeres si riferisce a un’uva a bacca bianca. Il mistero poi diventa ancora più intricato e per comprendere meglio quella che sembra essere una serie di errori non voluti con effetto a cascata, dobbiamo tracciare una breve storia della Garnacha. Questa compare nei lavori del Cervantes, l’agronomo spagnolo e non lo scrittore, con una datazione intorno al 1613, quindi successiva al 1549, anno dell’atto notarile di Cagliari dove compare il Cannonau. In più, come ci fa rivelare il Gianni Lovicu, ricercatore di Agris Sardegna a cui si deve tutta questa ricostruzione storica in merito alle origini del Cannonau, “la prima citazione del Garnacha tinto in Spagna è in un dizionario del 1734, mentre le attestazione di produzione in Sardegna di vino Cannonau risalgono quindi a circa 200 anni prima”. Diversi testi spagnoli infine, redatti da Eduardo Abela y Saiz de Andino e prima ancora dal Valier, risalenti al 1885, raccontano che, nella seconda metà dell’Ottocento, il Garnacha è il vitigno più giovane tra quelli impiantati in Aragona. Nello stesso periodo l’uva, rossa questa volta e non più bianca come quella delle origini, si diffonde in tutta la Spagna perché molto resistente all’oidio, piaga dell’epoca in tutta la penisola iberica. Concludendo, i due vitigni, benché caratterizzati da alcune somiglianze, sarebbero due cose diverse, tesi sposata anche nel recente (2014) volume “Native Wine Grapes of Italy” (I vitigni originari d’Italia) di Ian D’Agata, tomo di grande valore nella bibliografia dell’ampelografia nazionale non solo nel mondo anglosassone. Alla voce Cannonau, nel volume di D’Agata, dopo la storia dettagliata delle fonti spagnole e non, viene sposata la tesi di Lovicu, ovvero l’origine più antica del vitigno sardo che sarebbe così un’uva differente rispetto al Grenache, più tarda ed “esplosa” nella stessa Spagna grazie al diffondersi dell’oidio. Non abbiamo in questa sede volutamente trattato le tante analisi del DNA, che hanno contribuito, contrariamente ad altre circostante, a intorbidire viepiù le acque, giacché alcune hanno mostrato identità tra Grenache e Cannonau e altre, al contrario, fondamentali differenze. Ci fidiamo di più, in questo caso delle fonti storiche, documentali e degli atti notarili che, come sapete, difficilmente si sbagliano. 
 
 
Non rimane quindi che stappare una bottiglia di Cannonau, nella fattispecie il Cannonau di Sardegna Chuèrra Riserva di Jerzu, millesimo 2011. La Cantina di Jerzu è uno dei simboli di questo vino e di questa uva. Nata nel 1952, raccoglie oggi 430 viticoltori che lavorano 750 ettari per una produzione annua di 1 milione e 800mila bottiglie, tutte ad alto tasso di territorialità. Tornando al nostro Cannonau 2011 (80mila bottiglie e 14 euro il prezzo medio in enoteca), questo si presenta di un bel colore rubino con cenni violacei. L’olfatto è pura terra d’Ogliastra, con toni balsamici ed erbacei in bella mostra che declinano mirto, ginepro, santoreggia e timo serpillo. In seconda battuta le note fruttate di ribes nero e more che lasciano il campo ad anice, lievi tostature (maturazione per 8 mesi in tonneau), pepe e ancora corteccia e foglie secche. Morbido e caldo in bocca come solo il Cannonau sa essere. Sapido e terroso sin nella sua più intima essenza, discreta la freschezza e docili i tannini. Retrolfatto coerente con il naso: balsamico, fruttato, speziato e profondamente sardo. 
 
 
 
 


venerdì 10 aprile 2015

Lo Champagne ufficiale del Titanic. l’Heidsieck & Co. Monopole Blue Top Brut

 
 

 
 
 
 

Northam è un sobborgo popolare nella parte settentrionale di Southampton, Hampshire, Regno Unito. Percorrendo Britannia Road, una volta passato il St.Mary Stadium, culla dei Saints, soprannome della squadra di calcio del Southampton, e imboccata la Marine Parade, dopo circa un chilometro ci si trova nell’Ocean Village, modaiolo quartiere con annesso porto turistico, proprio acanto allo storico porto della “capitale” dell’Hampshire. Dai moli di quest’ultimo, a mezzogiorno del 10 aprile del 1912 salpò il transatlantico Titanic che, ancor prima di lasciare le acque di Southampton, rischiò una prima disastrosa collisione con il piroscafo New York che percorreva il medesimo tratto di mare. Segnale del disastro penserete, più semplicemente una fatale coincidenza in acque, sin dall’epoca, molto trafficate. Allora Southampton contava 100mila abitanti e, dopo l’inabissamento del transatlantico, una casa su quattro fu colpita da almeno una perdita, soprattutto nel sobborgo di Northam, da dove proveniva il grosso dell’equipaggio e dei facchini. A 103 anni dalla partenza del tragico viaggio ci piace ricordare i tanti momenti gioiosi, bagnati da molti e diversi vini, ma perlopiù dallo Champagne ufficiale del Titanic, l’Heidsieck & Co. Monopole Blue Top Brut.

 

Fondata nel 1785 da Florens-Louis Heidsieck, la maison rappresenta il capostipite dei diversi Champagne Heidsieck, tutti indipendenti tra loro. Considerato tra i migliori prodotti di Épernay, questo Champagne inondava le corti dei sovrani di Prussia, Svezia, Inghilterra e Russia: celebri gli ordini dello zar Nicola II che valevano 400mila bottiglie l’anno. Tanto grande era infatti la passione dei russi per questo Champagne che nel 1916, un ordine di 3mila bottiglie per l’esercito imperiale diretto a San Pietroburgo e caricato sul vascello Jönköping si inabissò nel Mar Baltico dopo l’abbattimento dell’imbarcazione da parte di un sottomarino tedesco. Nel luglio del 1998, una spedizione subacquea svedese ritrovò, sulla punta orientale del Baltico a 64 metri di profondità, il relitto del Jönköping, portando poi a galla 2.400 bottiglie di Champagne Heidsieck & Co Monopole millesimo 1907, perfettamente conservate. Poseidone sembrerebbe gradire i vini di questa maison che, battute a parte, è oggi di proprietà del Gruppo Vranken-Pommery ed elabora Champagne perlopiù da Pinot Noir, generalmente il 70% della cuvée, seguito da Chardonnay al 20% e Pinot Meunier per la restante porzione. L’odierno Blue Top non è molto diverso da quello consumato nel Titanic, e segue la “ricetta” della maison, con uve provenienti dai migliori cru di Tour sur Marne. La permanenza sui lieviti, dopo la presa di spuma, è di 36 mesi e sin dal primo assaggio mostra quel connubio di forza e finezza tipico delle vigne di questa zona, a ovest di Épernay, proprio sotto Bouzy, e del Pinot Noir. Nel calice è paglierino con riflessi oro verde, smagliante e perfetto nella sua estrema limpidezza. L’olfatto è delicatamente floreale, con cenni di glicine e sambuco, poi prende forza una vena fruttata che ripercorre aromi di uva spina, cedro e pesche bianche che lasciano via via il campo a burro e biscotteria secca. Non primeggia per potenza aromatica ma conquista per l’equilibrio degli aromi, mai gridati, sussurrati piuttosto, ma sempre ben scanditi. Lievemente più decisa la bocca: fresca, sapida, di struttura agile, fine e sostanzialmente coerente, al retrolfatto, con i sentori della via diretta. Dissetante nel finale il ritorno di cedro che incentiva ulteriormente l’assaggio. Non è uno Champagne Top, ma sicuramente tra quelli con il miglior rapporto costo valore, grazie a un prezzo in enoteca sempre sotto i 30 euro. Uno Champagne veramente per tutti, con una storia importante alle spalle e tanti aneddoti, tra cui, la presenza sul transatlantico più famoso del mondo che vogliamo ricordare nella gioia e nell’euforia della partenza, quel 10 aprile di 103 anni fa, quando alcuni dei 1.300 passeggeri del Titanic stringevano in mano un calice di Champagne Heidsieck & Co. Monopole Blue Top. 

 

sabato 4 aprile 2015

Barbera d'Asti Superiore Alfiera 2006 di Marchesi Alfieri

 
 



Ci sono grandi vini che graffiano il territorio e lo esprimono attraverso l’eleganza e la bellezza della loro anima e lo porgono così com’è, senza indugi. La Barbera di questa settimana ne è un esempio, una conferma, una dottrina. È il caso della Barbera d’Asti Superiore Alfiera 2006 di Marchesi Alfieri (annata per la quale non era stata ancora riconosciuta la Docg, raggiunta nel 2008; si tratta quindi di un vino Doc). Cantina storica che ha sede nel castello di San Martino Alfieri sulle colline del Piemonte tra Asti e Alba. A produrla dal 1990, sono tre sorelle, Emanuela, Antonella e Giovanna San Martino di San Germano coadiuvate, dal 1999, dal bravo enologo e direttore, Mario Olivero. L’azienda, condotta dal 1985, ha però una storia antichissima di vendemmie che risale al 1337, anno in cui, documenti di famiglia attestano l’esistenza di vigneti sui terreni di San Martino. Il vino, fatto da uve Barbera in purezza proviene da un vigneto, un “sorì” antico di 4 ettari piantato nel 1937. Il nome deriva dalla cascina sovrastante la collina denominata Alfierina. La vendemmia 2006 è stata la tipica piemontese con frutto preciso che mantiene negli anni personalità e un ottimo equilibrio al naso e al palato esprimendo una certa mineralità. Raccolta manuale delle uve, fermentazione sulle bucce in vasca di acciaio alla temperatura di 28°-30° per 15-20 giorni con délestage e leggeri rimontaggi. Fermentazione malolattica in legno con bâtonnage. L’affinamento avviene in barrique di rovere francese (Allier e Tronçais) da 225 e 500 litri per 18 mesi; in bottiglia per 6-8 mesi a temperatura controllata di 15° C prima della messa in commercio.

Complesso e debordante nei profumi e nella beva. Caldo, armonioso, avvolgente. L'impatto di scorza d'arancia al cioccolato fondente mista a note boisé fa entrare in una dimensione irreale. Poi tostatura di caffè e le fave del caffè con tanta cioccolata amara stesi su un tappeto umido dove cogli i frutti di bosco, quelli neri, scuri come la pece. Anche il suo incarnato rubino è impenetrabile, coeso. Si espande, dopo, al palato; prima bussa un po’ sferico con i suoi tannini vellutati, poi entra caparbio e con un carattere che non dimentichi. Lui c’è e imprigiona anche il retrogusto con un fruttato accondiscendente e nobili sensazioni torrefatte. Un vino che prende vita da vigne vecchie di oltre settant’anni, ha dalla sua parte tempo, storia e poesia lunga e infinita. Le parole d’ordine sono bellezza e austerità.

martedì 31 marzo 2015

MOSER 51,151 SPUMANTE METODO CLASSICO TRENTO DOC

 
Ha un outfit rosa e un nome particolare, lo Spumante trentino di casa Moser. 51,151 sono i chilometri percorsi da Francesco Moser in un’ora nel 1984 a Cittá del Messico. Questo record dell’ora fu molto importante perché oltre a battere il precedente primato di Eddy Merckx, fu utilizzata una bicicletta rivoluzionaria e dei metodi di allenamento completamente innovatiti tanto da essere ancora oggi in uso. Il modello della bicicletta fu chiamato va por la hora, ovvero le stesse parole che lo speaker messicano urlò poco prima del raggiungimento del record.
 
 

Dal 1984 l’azienda Moser produce un metodo classico Trento Doc con il nome 51,151 in onore e in ricordo di quel record che segnò la storia ciclistica mondiale. Un Trento Doc dove sono racchiuse la professionalità, la passione e lavoro di una grande famiglia. L’azienda agricola Moser nasce nel 1979 su iniziativa di Diego e Francesco Moser impegnati da sempre nella coltivazione di vitigni di proprietà in Valle di Cembra. Una storia dunque di tradizione contadina quella della famiglia Moser tra i vigneti del Trentino che risale dagli anni ’50 e che la vede oggi alla terza generazione. Nel 1987 Francesco Moser, terminata la sua straordinaria carriera ciclistica, decise di acquistare il Maso Villa Warth a Gardolo di Mezzo, antico podere vescovile nelle vicinanze di Trento, per stabilirvi la nuova sede dell’azienda che fino allora era a Palù di Giovo, luogo che vide i suoi natali. Qui oltre alle superfici vitate interamente rinnovate, fu costruita la nuova cantina che oggi è gestita dai figli Carlo e Francesca e dal nipote Matteo. La proprietà è costituita da 25 ettari di cui 10 di vigneto e 15 di bosco. L’esposizione a sud est, la composizione calcarea dei terreni e “l’Ora del Garda” che ogni giorno d’estate si forma sull’omonimo lago e sale verso nord, fanno di questo luogo un ambiente unico per la coltivazione dei bianchi aromatici e delle basi spumante.
Il vitigno principale di questo splendido Spumante 51,151 Brut é lo Chardonnay (90%) assemblato con il Pinot Nero (10%). Una parte (circa il 20%) viene vinificata in botti di legno. Il prodotto è poi affinato in bottiglia per 30 mesi;  il campione in degustazione con sboccatura Ottobre 2012 presenta un incarnato dorato e un perlage persistente e minuto. Al naso si esprime con carattere e vitalità nei sentori di cedro, di pompelmo, mela e nei richiami di tostatura fresca. Pungente il velo di salvia e timo. L’assaggio è vigoroso, vibrante con una decisa impronta agrumata ma con un corpo ben tornito e un ottimo equilibrio. Vino coerente nel ricordo e nell’anima. In tempi odierni è giusto concedersi certi piaceri organolettici proprio con queste “bollicine” trentine, deliziando così il palato come allora la vista fu deliziata da quella storica corsa in bicicletta.